Hellas Verona di Redazione , 07/06/2019 15:04

ECCO L'IDEA DI CALCIO DI IVAN JURIC

Ivan Juric

Ivan Juric è nato il 25 agosto 1975. Potrebbe essere lui il sostituto di Alfredo Aglietti sulla panchina del Verona. Il presidente gialloblù Maurio Setti sta riflettendo in queste ore per prendere una decisione. Ma che idea di calcio ha Juric e chi è? Ecco un'intervista a quello che potrebbe essere il futuro allenatore del Verona, tratta dal libro “The goal. Le vie dello sport sono infinite”, edito da Sometti nel 2015.



Alla base di un gruppo vincente servono sempre dei valori, tanto quanto una chimica sviluppata e un buon affiatamento. Quali sono i valori e le regole imprescindibili senza le quali per un gruppo non si prospetta un grande futuro?

Il valore del lavoro è il più importante. Credo molto nel lavoro, è la base di tutto. Poi il resto sono aggiunte. Il secondo passaggio sono le idee di calcio che voglio applicare alla squadra, cioè lavorare sulla base tecnica prima ancora che sulle chiacchiere e lo spirito di squadra. Quello si crea dopo. Ciò che conta è avere un’idea chiara di come giocare, dove ognuno sa esattamente cosa deve fare. È la base. Se sopravvaluti certe cose, tipo lo spirito di gruppo, poi rischi di trascurarne altre. Io ho avuto la fortuna di poter prendere parte a un incontro con un famoso allenatore di basket, e lui parlava molto di questi aspetti di gruppo nella prima fase della sua carriera. Ha confessato di aver capito dopo anni e anni che la cosa più importante è che ogni giocatore sappia esattamente cosa deve fare sul campo, che ognuno ha il compito da svolgere. Lo spirito di gruppo rischia di distrarre e di non concentrarsi su cose concrete. E invece, ogni giocatore che sia di basket, rugby o calcio, durante la partita deve eseguire determinati compiti, possibilmente bene. Ognuno deve fare il suo, è così che alla fine si crea un prodotto buono.

Su quali aspetti bisogna rivolgere l’attenzione nella fase di conoscenza e giudizio di un possibile giovane talento?

La capacità di leggere il gioco è il primo aspetto che guardo. Rispondo con un esempio: Zammarini non ha grandi doti fisiche o particolari doti tecniche. Però è un giocatore che secondo me potrà fare un grandissima carriera perché percepisce il gioco, nonostante la sua giovane età sa esattamente quello che deve fare. Ed è per quello che l’ho voluto in prima squadra. È un dono fantastico. Se lui riesce a migliorarsi tecnicamente e fisicamente potrà raggiungere un livello importante.

Julio Velasco negli anni ’90 ha scosso molto la mentalità sportiva italiana. Cos’è rimasto di quella rivoluzione e ora com’è la situazione?

La mia tesi a Coverciano era proprio sugli aspetti motivazionali, e la base di tutto è il miglioramento. Io lavoro molto con video e immagini, e davanti a questo un giocatore non può trovare alibi. Finché tu parli magari un giocatore può avere in testa un altro film della partita, ma attraverso i filmati vedi esattamente gli errori che fai. È fondamentale che i giocatori riconoscano gli errori, li percepiscano. Non è facile riconoscere i propri errori, ma non appena ci si riesce e si lavora per eliminarli, vuol dire che diventi veramente più forte. Sai che con il lavoro e l’impegno interiore puoi migliorare e correggerti. Se invece si ha sempre un alibi per qualsiasi cosa allora non cresci come giocatore e non cresci come persona. È fondamentale questo passaggio.

Tra l’altro ho sempre notato moltissima differenza nell’approccio a questo aspetto in base alla provenienza culturale, fin da quando ero giocatore. All’inizio della mia carriera ho giocato con un giocatore australiano e uno danese, avevano un approccio fantastico. Molto anglosassone. Hanno grande professionalità, lavorano sempre al massimo e allo stesso tempo si preoccupano molto poco dopo le partite. Se vincevamo o perdevamo il loro atteggiamento era pressoché lo stesso. Quello gli permette di essere sempre sereni, di non sprecare energie inutili in rammarico o troppa euforia. Queste due Nazionali, per esempio, hanno poche qualità tecniche, ma proprio grazie a questo approccio serio al lavoro e privo di eccessive preoccupazioni, riescono a fare spesso bella figura nelle competizioni internazionali. Ho notato anche la differenza tra giocatori africani ed europei. Quelli africani sono un po’ più complicati da affrontare, ma quando li conquisti e vedono che sei una persona sincera e si inseriscono nel gruppo allora probabilmente ti danno anche qualcosa in più rispetto agli altri. Non arrivo a dire che gli italiani hanno un approccio all’alibi pessimo, però si adattano rispecchiando una caratteristica che è di tutto il popolo. Si adatta alle situazioni. Se ne trova una negativa si adatta alla negatività, che è quello che è successo negli ultimi anni nel vostro calcio con le scommesse e quant’altro. Se vede che è una situazione positiva dove si lavora bene si adegua. Siete persone che si adattano. Noi dei Balcani abbiamo uno spirito più pericoloso, nel senso che se vediamo una situazione che non ci piace possiamo diventare anche cattivi, però siamo molto competitivi. Quando ci alleniamo o giochiamo una partita abbiamo una competitività importante. Non è facile affrontarci come persone, perché siamo molto diretti. Quando c’è da giocare non ci nascondiamo.

Viene spontaneo pensare e collegare la corretta crescita umana e sportiva di un ragazzo alla preparazione degli allenatori e istruttori dei settori giovanili. Quanta attenzione dedicano le società allo sviluppo del settore giovanile?

Il problema dell’Italia in generale è la competitività, tutti gli allenatori lo sono. Questo accade anche nei settori giovanili, tutti cercano solo di vincere e qui torniamo anche al discorso dell’utilizzo forzato di giocatori già strutturati. Io ho avuto esempi durante il periodo a Genoa in cui c’erano buonissimi allenatori che però faticavano a ottenere risultati, e si tendeva a farli allenare di volta in volta una categoria sempre più bassa. Se allenando i ragazzini di 13/14 anni non vincevi, l’anno dopo magari allenavi quelli di 10. E invece bisogna fare il contrario. Il primo allenatore che può iniziare a cercare un po’ il risultato è quello della Primavera, perché comunque li devi preparare per il calcio professionistico. Ma in altre categorie bisogna cercare maggiormente il gioco, formando i ragazzi come giocatori e persone, dimenticando il risultato.

È giusto che le giovanili giochino tutte con lo stesso schema della prima squadra?

Secondo me no. Certo, quando vedo Barcellona e Ajax non posso dire che è un sistema sbagliato, loro lo fanno benissimo. Però credo che il ragazzo debba imparare a giocare in più moduli. A Genoa quando allenavo la Primavera giocavamo con il 3-4-3, era un periodo in cui andavamo molto bene e di conseguenza il direttore sportivo voleva che anche gli Allievi giocassero con lo stesso modulo. Io mi sono opposto, anzi volevo proprio che l’allenatore degli Allievi giocasse con uno schema diverso in modo che i giocatori imparassero altri sistemi di gioco e altri modi di pensare, in modo da diventare più completo. Anche qui a Mantova non cerco continuità. Con Elia Pavesi, allenatore della Primavera, e Ciccio Graziani, allenatore degli Allievi nazionali, non cerco continuità di schemi. Loro sono due ragazzi in gamba, e ho cercato di valorizzare molto il settore giovanile del Mantova. Abbiamo tirato fuori un giocatore come Zammarini, che quando sono arrivato non era neanche nei piani della prima squadra. Ma in questo settore si può fare di più e meglio, il nostro grande problema sono le strutture che sono indecenti. Anche il livello economico del settore giovanile è basso ed è difficile pensare di far crescere altri giocatori interessanti se non si ha la capacità di investire più soldi. I modelli devono essere Atalanta ed Empoli, sono andato a vedere come lavorano e sono fantastici. Sono tutti giocatori italiani, addirittura proprio della zona, investono molto nelle strutture e negli allenatori. Parlando con qualcuno dell’Atalanta, ho capito che loro crescono ragazzi della zona fin dai 10 anni o anche meno, poi ogni anno possono introdurre due o tre giocatori provenienti da fuori, che però devono alzare il livello della qualità del gioco e degli allenamenti, e possono anche arrivare a pagarlo tanto. Però la base è il territorio. Anche se poi ci sono altri modi di lavorare, quando ho affrontato la Primavera della Juventus avevano 7 stranieri su 11.

In apparenza il risultato potrebbe essere collegato anche a eventi fortunosi, per non dire casuali. José Mourinho ed Ettore Messina durante le loro contemporanee esperienze a Madrid si sono anche confrontati su questo aspetto. È davvero possibile controllare la casualità?

Nel calcio non possiamo escluderla completamente, però ridurla sì. Io faccio molta analisi con i filmati, e questo mi permette sempre di vedere che il nostro risultato dipende dai gesti tecnici, oltre naturalmente a fase difensiva, offensiva, tenuta atletica e altre cose. Ricordo sempre un famoso allenatore di pallacanestro dire: «Noi siamo cinque contro cinque, di conseguenza uno contro uno. Se un giocatore limita il diretto avversario e riesce a giocare bene in attacco, la squadra ha il 20% in più di vincere la partita». Così ragiono anch’io durante l’analisi dei filmati: se il mio attaccante ha cinque volte un uno contro uno e riesce a superare l’avversario tre volte, c’è una grande possibilità di vincere la partita. Se invece non ci riesce è molto probabile che non la vinciamo, e anche i giudizi di tutto il resto saranno condizionati dal non aver vinto la partita. Perché dopo cosa succede? Che il giornalista italiano, il direttore sportivo italiano, e ancora peggio il presidente italiano, valuta prestazione sulla base del risultato. Invece io credo molto nella capacità di eseguire correttamente il gesto tecnico, nell’uno contro uno e nelle statistiche di questo tipo.

Ho visto partite giocate ottimamente ma perse perché il gesto tecnico non è stato eseguito bene. Gli aspetti che curo con più attenzione sono la posizione in campo dei giocatori e spiegargli cosa deve fare, i cosiddetti automatismi. Curo molto anche la posizione del corpo, sono questi particolari che poi fanno fare il salto di qualità. Se un giocatore è di schiena all’avversario non vede il gioco. Magari sono piccoli particolari, ma messi tutti insieme ti alzano il livello della prestazione di tutta la squadra. La capacità di leggere il gioco è fondamentale, a certi giocatori poi riesce naturale. Riescono a sentire e percepire le situazioni. Io come giocatore magari sono maturato tardi su quest’aspetto, però quando sono arrivato a maturare queste cose capivo esattamente cosa bisognava fare in ogni momento della gara. Ci sono giocatori che hanno questo talento naturale, gli altri invece vanno aiutati con gli automatismi anche se in generale è un talento che è poco allenabile".